La Battaglia di Montaperti
La Battaglia di Montaperti
di Renato Mariani Pisano
Come afferma Duccio Balestracci, docente all'università senese, nell’interessante libro “La battaglia di Montaperti” le notizie sul luogo e sullo svolgimento della battaglia sono incerte e confuse perché non abbiamo una documentazione contemporanea degli accadimenti. Questa nota fornisce un logico elenco, il più possibile completo, delle notizie utili.
FORZE IN CAMPO: Guelfi (Firenze e alleati) comandati da Iacopino Rangoni da Modena; Ghibellini (Siena e alleati) comandati da Aldobrandino Aldobrandeschi e da Manente degli Uberti detto Farinata, capo riconosciuto dei ghibellini Fiorentini, esiliato a Siena dal 1258.
Alla morte di Federico II di Svevia nel dicembre 1250 il potere imperiale passò a Corrado IV. Manfredi, figlio naturale di Federico era vicario del fratellastro Imperatore, che morirà nel 1254. Alla notizia, falsa, della morte dell’erede diretto, l’infante Corrado V, Manfredi si era proclamato Re di Napoli e guadagnato la scomunica papale.
Nella prima metà del XIII secolo gli scontri tra Firenze guelfa e Siena ghibellina furono numerosi, ma non sufficienti determinare un vincitore. Guelfi e Ghibellini: i due termini ai tempi di Montaperti non avevano quel contenuto politico e ideale che finirono per assumere nei secoli successivi. Le appartenenze all'interno delle città toscane e nelle alleanze che queste ultime stringevano e scioglievano avevano contorni meno netti del semplice schieramento col Papato o con l'Impero, come spiega Duccio Balestracci, docente all'università senese, nel libro La battaglia di Montaperti. A quel tempo le città toscane erano schierate nelle due coalizioni guelfa e ghibellina che facevano capo a Firenze e Siena, ovviamente appoggiata da Manfredi e comprendente i fuoriusciti Fiorentini guidati da Manente degli Uberti, soprannominato Farinata dal colore dei capelli. Altri alleati di Siena erano Pisa e Arezzo, città ghibelline come Montepulciano e Montalcino. Il motivo che portò allo scontro di Montaperti fu il mancato rispetto degli accordi stipulati con Firenze nel 1255, che sancivano l'impegno senese a non accogliere persone bandite da Firenze. I Senesi invece accolsero i ghibellini Fiorentini, quando nel 1258 questi furono cacciati da Firenze. Nel 1259 Siena aveva stipulato un trattato di alleanza con Re Manfredi, che l’anno successivo aveva inviato alcune compagnie di cavalieri tedeschi al comando di suo cugino conte Giordano d'Anglano. Nel febbraio 1260 Siena aveva riottenuto la fedeltà di Grosseto e nel successivo mese di marzo iniziò le operazioni per la riconquista di Montemassi e Montiano. Nell'aprile la lega guelfa si mosse con un grande esercito e a maggio, si accampò a poca distanza da porta Camollia (N.d.r. Questa porta sarà distrutta durante l’assedio del 1555 e poi ricostruita). Il 20 maggio, dopo un assalto dei cavalieri tedeschi, inaspettatamente l'esercito guelfo tolse l'assedio a Siena e rientrò a Firenze. Gli attacchi dei Fiorentini continuarono invece contro Montepulciano (che si arrese in luglio) e Montalcino.
Sul finire di agosto, un esercito guelfo che le cronache indicano in trentamila fanti e tremila cavalieri si diresse verso Montalcino appena conquistata per aiuti e rifornimenti. L'accampamento fiorentino fu allestito a Pieve Asciata, in Val d'Arbia a pochi chilometri da Siena, come rivalsa dopo la scaramuccia di maggio ma contro il parere di Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari. Il 2 settembre due ambasciatori Fiorentini furono inviati a consegnare un ultimatum al Consiglio dei Ventiquattro, riunito nella chiesa di San Cristoforo (dove sarà esposto anche il bottino della futura vittoria). I Senesi consci di poter contare sull'appoggio di molti ghibellini decisero di non cedere e di corrispondere ai cavalieri tedeschi paga doppia per meglio motivarli alla imminente battaglia. I fondi necessari al finanziamento furono forniti da Salimbeno de' Salimbeni, potentissimo banchiere senese.
L’esercito fiorentino constava di circa ventimila uomini provenienti da Firenze guelfa, contingenti militari inviati da Bologna, Prato, Lucca, Arezzo, Orvieto, San Gimignano, San Miniato, Volterra e Colle Val d'Elsa, quattromila uomini aretini condotti da Donatello Tarlati, 1000 cavalieri di Pitigliano al comando del conte Aldobrandino Rosso e 600 uomini di Campiglia al comando di Pepo Visconti, di cui facevano parte i fuoriusciti Senesi. Secondo le cronache di Giovanni Villani (1276 - 1348) il totale di questa armata era di circa 33.000 uomini; secondo Baldassarre Bonaiuti, detto Marchionne di Coppo Stefani (1336 - 1386), il loro numero era di oltre 35.000; anche secondo altri studiosi sembra che la stima più verosimile si attesti non oltre i 40.000.
L’esercito ghibellino era composto da ottomila fanti Senesi, forniti dai Terzi (N.d.r. terzieri) della città (Città vecchia, S. Martino e Camollia) e 600 cavalieri, al comando di Aldobrandino Aldobrandeschi, Capitano Generale; da circa 4.000 soldati e 200 cavalieri e comandati da Niccolò da Bigozzi, posti a guardia del carroccio; da duemila fanti e 800 cavalieri germanici di re Manfredi, guidati dal conte Giordano d’Anglano; tremila armati inviati da Pisa, oltre mille soldati provenienti da Cortona e quattromila uomini di Arezzo, condotti da Donatello di Tarlato. A loro, si aggiungevano i fuorusciti Fiorentini, guidati da Farinata degli Uberti e dal conte Guido Novello, gli ascianesi, i ternani, i santafioresi e i bonizzesi, nonostante in quel momento Poggiobonizio (Poggibonsi) fosse occupato dai Fiorentini. Il totale delle truppe era di circa 22.000 uomini.
I Senesi, usciti dalla città la notte del 3 settembre, dopo alcune soste si erano attestati sul poggio delle Ropole (oggi Taverne d’Arbia), proprio di fronte alle alture di Monselvoli, dove erano schierati i Fiorentini. Si racconta che a quel punto i Senesi posero in opera un ingegnoso stratagemma per impressionare gli avversari: fecero infatti sfilare sul poggio il loro esercito ma, giunti al coperto, si cambiarono le uniformi e per tre volte ritornarono in cima all’altura mostrandosi ai nemici ogni volta con i colori di un Terzo in modo da apparire più numerosi di quanto fossero in realtà. Si racconta anche che furono coinvolte false fattucchiere col compito di addentrarsi nel campo fiorentino ed iniziare a seminar panico, predicendo morte e distruzione ai guelfi che, come tutti gli uomini del medioevo, erano assai superstiziosi e quando si sentirono predire, ad esempio, che sarebbero morti tra il bene ed il male, sapendo di aver posto l’accampamento tra i torrenti Biena e Malena, l’effetto fu psicologicamente devastante.
Il cosiddetto Libro di Montaperti è una cronaca redatta probabilmente da uno dei “notari” inviati da Firenze per documentare la composizione dell’esercito guelfo, i suoi spostamenti, il vettovagliamento e gli armamenti. La cronaca termina però il 3 settembre, probabilmente perché l’autore fu coinvolto nella battaglia. Sullo svolgimento e sul vero luogo dove si svolse ci dobbiamo quindi basare su ipotesi, perché le descrizioni successive sono inquinate dalla faziosità degli autori.
Lo scontro fra i due schieramenti iniziò sul far del giorno sabato 4 settembre del 1260, probabilmente in una zona a sud-est di Siena in prossimità del torrente Arbia, in località Montaperti (vedi Repetti circa 5 miglia toscane a levante di Siena) sull'altura che oggi ha nome Montapertaccio o, secondo altri, tra la confluenza dell'Arbia col Malena, la torre di Monselvoli (oggi Arbia paese) e il castello di Montaperti. I Senesi innanzitutto stabilirono che il conte d’Arras, luogotenente di Giordano d’Angliano, guidasse un gruppo scelto di 200 cavalieri e 200 fanti germanici in una manovra d’accerchiamento utilizzando un sentiero poco conosciuto che aggirava il poggio di Monselvoli e conduceva alle spalle della posizione dei Fiorentini. Il conte Giordano ed il novanta per cento delle truppe dei Terzieri avrebbero attaccato frontalmente tutto lo schieramento nemico. Gli armati restanti, al comando del siniscalco Niccolò Digozzi avevano l’obbligo tassativo di non muoversi dal Carroccio, che dovevano proteggere ad ogni costo. Fu dato il segnale d’attacco e l’ordine di non fare prigionieri. I Senesi scesero rapidamente il Poggio delle Ropole, attraversarono l’Arbia e si trovarono di fronte Monselvoli e mezzo miglio più sotto l’affluente Malena, Al primo assalto ad opera di un drappello di cavalieri tedeschi, l’avanguardia fiorentina, fu costretta a ripiegare, ma le truppe che si trovavano nel Pian delle Cortine riuscirono a ricongiungersi con gli altri per aver un importante vantaggio di posizione. Il cavaliere tedesco alla testa dell’assalto s’abbatté su Niccolò Ghiandoni capitano dei lucchesi, che comandava l’ala sinistra dello schieramento avversario, e lo scaraventò a terra. Subito dopo sopraggiunse un secondo cavaliere e con un tremendo colpo lancia trafisse il cavallo ed il cavaliere che era il capo dei pratesi, tale Zanobi. Fu poi la volta di Giordano d’Anglano, il quale trafisse con la spada Donatello Tarlati, comandante degli aretini, mentre l’’Aldobrandeschi brandiva il suo spadone a due mani e tranciava gli avversari. Ma i Fiorentini resistevano; nonostante non si fossero mai aspettati dai Senesi una veemenza simile, il loro vantaggio numerico teneva in stallo le sorti dello scontro, che in ogni reparto diventava sempre più accanito. Nel tardo pomeriggio scattò l'ingegnoso piano che prevedeva il tradimento di una parte dei ghibellini infiltrati nell'esercito della lega guelfa. Al grido di "San Giorgio", un manipolo dei cavalieri guidati dal conte d'Arras lanciò un modesto contrattacco a cui i Fiorentini dettero poca importanza, ma questa mossa era il segnale per Bocca degli Abati arruolato con altri nelle truppe guelfe, ma di fede ghibellina. Appena si rese conto dell’attacco ghibellino con un preciso fendente amputò la mano al vessillifero che portava lo stendardo della cavalleria fiorentina facendolo volare a terra. Non avendo più un punto di riferimento le truppe fiorentine si sbandarono e nello scompiglio generale i ghibellini presenti nelle file guelfe si scagliarono ferocemente contro i loro concittadini dell'opposta fazione.
Nel tardo pomeriggio però i Senesi si trovavano sulle posizioni iniziali o quasi ed al tempo stesso i Fiorentini non erano avanzati d’un metro. Niccolò Bigozzi, rimasto a guardia del Carroccio senese disubbidì agli ordini e con i suoi si gettò nella mischia. Il suo primo avversario fu il conte di Pitigliano, guelfo, cugino dell’Aldobrandeschi, e l’uccise. A questo punto sbucò alle spalle dell’ala sinistra guelfa il conte d’Arras, coi suoi uomini, fino allora nascosti ed immobili. I Fiorentini, attaccati alle spalle da quei tedeschi scatenati e urlanti, furono presi dal panico, anche perché la lancia del conte D'Arras aveva trapassato la gola di Iacopino Rangoni, comandante generale. Fu l'inizio della rotta dei guelfo-Fiorentini che iniziarono a fuggire in varie direzioni inseguiti dai ghibellini decisi a fare quello che poi Dante così descrisse nel canto X (eretici che in vita sostennero opinioni contrarie riguardo alla dottrina della Chiesa) dell'Inferno rispondendo a Farinata: "Ond'io a lui: lo strazio e 'l grande scempio / che fece l'Arbia colorata in rosso / tal orazion fa far nel nostro tempio". Quando i guelfi si gettavano ai loro piedi implorando pietà, i Senesi memori di ciò che gli ambasciatori Fiorentini due giorni prima avevano tronfiamente esclamato: “Siate certi che non ci faremo vincere da alcun senso di pietà verso di voi”, colpivano duramente con spade e magli e rincorrevano e uccidevano anche coloro che fuggivano disarmati. Solo i difensori del Carroccio, comandati da Giovanni Tornaquinci, fecero quadrato e si fecero tagliare letteralmente a pezzi fino all’ultimo uomo prima di cedere all’avversario simbolo del loro Comune. La mattanza proseguì fino al calar delle tenebre, momento in cui i comandanti ghibellini dettero l'ordine di risparmiare la vita a coloro che si fossero arresi. Tutte le insegne del nemico furono distrutte e il Carroccio fiorentino fu portato in Siena come ambitissima preda di guerra. Per Firenze fu un giorno apocalittico: Montaperti fu forse la più grande disfatta militare subita da una sola città in tutto il Medioevo.
Farinata dopo Montaperti rientrò vittorioso in Firenze, da cui il 13 ottobre furono cacciati una seconda volta i guelfi. Riunitisi i capi ghibellini nella dieta di Empoli proposero, e particolarmente i Pisani, che Firenze fosse rasa al suolo, per distruggere alla radice il guelfismo toscano, ma Farinata si oppose e riuscì a salvare la sua città. (N.d.r. Ma fu' io solo, là dove sofferto/fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,/colui che la difesi a viso aperto). Morì in Firenze nel 1264.
Nel 1269 Siena dovette subire una sonora sconfitta a Colle val d'Elsa, nella quale cadde Provenzano Salvani, uno dei comandanti artefici della vittoria di Montaperti. La vittoria guelfa restaurò la supremazia fiorentina nella regione.
A Siena sono molti i luoghi legati alla battaglia e di seguito elencati:
Cattedrale di Santa Maria Assunta dove sotto l’esagono della cupola, si notano due antenne lignee fissate ai pilastri angolari che si dice appartenessero al carroccio fiorentino; Chiesa e chiostro di San Cristoforo; Castellare degli Ugurgeri con lapidi; Contrada del Leocorno che conserva una piccola campana che si dice essere la martinella del carroccio fiorentino; Campanile della Chiesa di San Giorgio con 38 finestre a ricordo delle 38 compagnie di combattenti; Basilica di S. Maria dei Servi con all’interno la Madonna del Bordone dipinta dal fiorentino Coppo di Marcovaldo come riscatto della sua prigionia; Merli a coda di rondine di Palazzo Marescotti, oggi Palazzo Chigi Saracini, unici a Siena, costruiti a ricordo dei giovani Marescotti morti nella battaglia; Torre del palazzo Chigi Saracini da cui il tamburino Cerreto Ceccolini fece la cronaca della battaglia; sul soffitto di una sala dello stesso palazzo un dipinto della battaglia, opera di Arturo Viligiardi (1869 - 1936).
Alla fine del XIX secolo un cippo a forma di piramide fu innalzato sulla collina alle spalle del sito detto Montapertaccio.
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